Il Dialetto è ricchezza.

Buona sera a tutti =) , parlo molto d’amore e poco di me in ambito familiare,privato e sociale . Penso molti di voi non sappiamo che sono una studentessa di lettere moderne , sto completando l’ultimo anno e studiando linguistica italiana , ci hanno assegnato come elaborato una ” Autobiografia Linguistica”. In pratica ho scritto l’evoluzione della lingua e l’importanza del dialetto a partire dalla vita dei miei nonni , fino a me ! Ve la propongo , buona lettura ,aspetto qualche vostro commento =)

“La lingua italiana era una lingua seconda, da insegnare come tale, a partire dalla prima, cioè dal dialetto!” – Tullio De Mauro

 Il ventisette Aprile del 1926, nacque al primo piano di un palazzo rovinato nei pressi della stazione centrale di Palermo, la settima di undici figli, in una famiglia poverissima, nella quale il dialetto locale (ossia il palermitano) era una costante per esprimere qualsiasi tipo di concetto , una bambina di nome Maria ,colei la quale sarebbe diventata mia nonna . Maria crescendo, ascoltando le conversazioni che avvenivano in famiglia divenne una totale dialettofona. Le uniche volte in cui venne a contatto con la lingua italiana fu durante i due anni di elementari obbligatorie che le spettarono in seguito alla Legge Coppino. Dopo di che si chiuse in casa ,aiutando la madre nelle faccende e cercando di racimolare qualche soldo svolgendo commissioni alle vicine, anche un pezzo di pane le andava bene .

Un giorno però all’età di quattordici anni, in piena adolescenza si aggirava nei pressi di casa sua, un ragazzo ben distinto , mia nonna nei suoi racconti mi disse che girava in carrozza trainato da un cavallo bianco . Il giovane, nel momento in cui intravide gli occhi di Maria non poté fare a meno di notarla, e passando tutti i giorni alla stessa ora da quella strada si innamorò di lei e della sua bellezza ,e quando i due si conobbero …quel ragazzo di nome Francesco ,nonostante Maria appartenesse a una famiglia decisamente ben diversa dalla sua ,sia in ambito economico che sociale , la sposò. Da quel matrimonio nacquero cinque figli: ai primi due coetanei  , Rosalia ( anche se fin dalla giovane età, l’ipocoristico Lia prese il sopravvento) e Francesco, vennero assegnati nomi in uso nella tradizione familiare della famiglia Mazza ,ovvero al maschietto spettò il nome del nonno e alla femminuccia il nome della nonna( alla quale ,a sua volta, venne attribuito questo nome per devozione a Santa Rosalia ,che dal 1624 venne considerata patrona per aver abolito la peste a Palermo). Palesemente i nomi dei primi due figli, li aveva decisi mia nonna che con fare “democratico” ,mi raccontò , disse a mio nonno: [1]«Francè i figghi sunni mia e cumannu io !». Mio nonno non osava contraddire una donna col temperamento forte e determinato come il suo. Al terzo figlio, invece, venne dato un nome di origine latina, Aurelio, scelto palesemente da mio nonno che tanto amava quell’impavido imperatore romano. Mio nonno era un uomo di cultura, diplomato, dall’atteggiamento distinto e pacato, amava la musica lirica e il Teatro.

Sembrava che la famiglia Mazza fosse al completo. Mia zia Lia dopo avere frequentato le elementari (tutti e cinque gli anni), apprese di avere un’arte innata per la sartoria e iniziò a tredici anni a lavorare, mentre i miei zii lavoravano con mio nonno ,proprietario di vari ristoranti a Palermo. Sette anni dopo però … Lia ripeteva spesso alla madre Maria, il desiderio di avere una sorella. Nonostante la ragazzina non avesse studiato molto tra i banchi di scuola, essa era una vera e propria autodidatta ! Adorava leggere i libri che mio nonno riponeva nella libreria in salone, e sfogliando uno di essi, la colpì il nome Irene . Da quel momento mia nonna non ebbe più pace! Lia ogni giorno richiedeva la sorellina e dopo qualche mese venne accontentata: nacque Irene. Essa crescendo incarnò esattamente l’ideale greco del quale il suo nome si fa portatore: pace  .

Arrivati a questo punto della storia, probabilmente qualcuno si starà domandando quando e da chi nacqui io. Ebbene… La famiglia Mazza, ancora, non sapeva che il cerchio si sarebbe chiuso con la figlia più capricciosa, spericolata e vivace di tutte, mia madre ..la piccola Rosa . Mia madre detesta il suo nome, tutt’ora a cinquantasei anni si lamenta del suo nome guardando con fare interrogatorio mia nonna (ormai novantunenne) del perché non si sia premurata a darle il nome di sua nonna: Teresa ,nome che le piace molto. Tutte le Volte che mia madre le rivolge questo quesito, mia nonna le risponde sempre allo stesso modo : [2]Ancuora? U nomi ormai chìstu è, me suoru si chiama accussì»). Mia nonna aveva un forte legame con sua sorella Rosa, tanto da chiamarne l’ultima figlia . Dico sempre a mia madre che Rosa non è un brutto nome, richiama il fiore dell’amore , ma lei non sembra darmi retta e anche nel suo caso l’ipocoristico Rosi ha preso il sopravvento . Gli anni passano e nonostante la famiglia fosse la stessa, i ragazzi si formarono con un’educazione diversa l’uno dall’altro : Francesco e Aurelio si apprestarono ad acquisire la licenza media, Lia invece continuò il suo percorso da autodidatta. Nonostante i tre venissero a contatto quotidianamente con una madre dialettofona, Lia e Aurelio svilupparono “l’italiano dei semicolti”. Spesso la ricerca di un registro ancora più alto nell’oralità, portava Aurelio a compiere fenomeni di ipercorrettismo commettendo parecchie sovraestensioni del clitico dativale [3]ci o errori di grafia nello scritto, tuttavia andò migliorando giorno dopo giorno. A Francesco andò diversamente, la passione per le varietà trasmesse: radio, cinema,  giornali o l’amore per l’arte e i  musei,  lo aiutarono molto a migliorare la sua preparazione linguistica. Adesso a distanza di parecchi anni ,del tutto italofona. Alle piccole principesse di casa, mia zia Irene e a mia madre, spettò invece un’educazione scolastica eccellente. Dopo le scuole medie, vennero iscritte alla scuola superiore di secondo grado: Irene intraprese l’istituto tecnico commerciale, Rosi il liceo linguistico, nel quale apprese di amare la lingua francese (pur non sapendone molto). Le due si diplomarono e furono l’orgoglio della famiglia Mazza. Qualcuno potrebbe pensare che il merito vada a mio nonno, invece la persona che seguì costantemente le figlie, non tanto nella preparazione ma come stimolo emotivo(per non dire palesemente che le avrebbero prese se non avessero frequentato la scuola) a studiare e formarsi in un modo impeccabile fu proprio mia nonna , la quale spesso si sedeva accanto mia madre ,a detta di tutti [4]a figghià ru cuori’ pur di imparare qualcosa. Mia madre crescendo divenne una vera e propria diglotta sapendo bene quando utilizzare l’italiano nella sua forma più corretta e quando il dialetto ,più comunemente utilizzato in ambito familiare/privato.

Intanto, tornando un po’ indietro nel tempo, un bambino di nome Pasquale, cresciuto in una famiglia di italofoni, guardava con sguardo di rammarico e inquisitorio il padre Salvatore (mio nonno) chiedendogli, seduto sul tavolo della cucina e con le braccia conserte, il perché avessero scelto un nome definito da lui, “antico”. Mio nonno, uomo colto e razionale, esortò il piccolo ad essere fiero del suo antroponimo , ma nulla non c’era verso. Il piccolo Pasquale chinò la sua testa piena di capelli neri attenzionando il suo sguardo color cielo, prese un foglio e scrivendo svariate volte il suo nome compì così vari procedimenti: con l’utilizzo dell’apocope approdò a  “Pasqual” ad esso aggiunse il suffisso “ -uccio”, a sua volta l’elisione dell’affricata palatale sorda, consentì al bambino di determinare il Suo nome , il nome di mio padre: Lucio (divenne a tutti gli effetti ipocoristico). Nella famiglia di mio padre non c’era traccia di dialetto, egli e la sorella Armida, in casa non udirono mai termini dialettale. Nella sua famiglia, parlare il dialetto locale era considerato elemento qualificatore di ignoranza, degrado e bassezza sociale. Mio padre, veniva a contatto col dialetto solo con gli amici , quando nel pomeriggio si radunavano nella piazzetta del quartiere a giocare a calcio. Non osava neanche ripeterlo , perché probabilmente non sarebbe stato in grado di farlo, da totale italofono, e ne ebbe la prova  quando un pomeriggio disse a mio nonno , prima di scendere per giocare con gli altri ragazzi :[5]« Papà ,pìgghia le scarpe». Mio nonno lo guardò con delusione, e dopo avergli tagliato le scarpe da tennis per fargli capire il suo sconcerto, gli vietò di scendere per raggiungere gli amici ma soprattutto lo esortò a non utilizzare mai più gerghi ,chiamati così da lui, del genere in casa sua.

Anni dopo però una mattina, il destino (mi piace chiamarlo così) fece incontrare Rosi e Lucio. Era una splendida giornata quella li , i due si ritrovarono a Mondello nel luogo giusto al momento giusto. Scambiarono qualche chicchera; mio padre iniziò a mostrare intelligenza ed eleganza, elementi che lo hanno sempre contraddistinto, mentre mamma con la sua parlantina vivace e con i suoi occhi scuri riuscì a farsi amare in un istante. Dopo anni di fidanzamento i due si sposarono . Mio padre legò particolarmente con Francesco ,fratello di mia madre, e con la mia adorata nonna Maria. Lei impazziva per questo suo genero!!  Ogni volta che sapeva del suo arrivo in casa, lo chiamava ore prima, improvvisando un italiano semicolto dicendogli: «Lucio ti ho preparato le farfallette al salmone, il posto meglio a tavola è il tuo». Mia madre dice che era anche un po’ buffa la nonna quando si sforzava nel parlare italiano corretto, cosa che in seguito avrebbe fatto anche con me.

 Ma finalmente è arrivato il mio momento, dopo ben sei anni di matrimonio, dopo tanta attesa e desiderio    il cinque gennaio del 1996 nacqui io: Simona, Armida Zarcone . Portando gioia immensa a mio padre Lucio, il quale sperava arrivasse la figlia femmina, e il naso arricciato di mia madre che ,pur amandomi alla follia fin da subito, avrebbe preferito il figlio maschio( a cui sarebbe spettato il nome del nonno paterno Salvatore). Qualcuno si starà chiedendo del perché della virgola tra i miei due nomi, in effetti è un quesito che ho posto anche io ai miei genitori. Mia madre mi disse che la scelta del mio nome non fu semplice! A mio padre piaceva il nome Monica ( per il semplice fatto che la sua attrice preferita si chiamasse cosi, lui ingenuamente sperava nascessi bella come Monica Bellucci) mentre mia madre desiderava chiamarmi Elena. La disputa tra i due fu tale da spingere mio nonno Salvatore, con discrezione, a proporre il nome Simona il quale è mozione del nome Simone di origine ebraica Shime’on deriva dal verbo shama, ‘ascoltare’, e significa ‘Dio ha ascoltato’, nome che gli sembrò appropriato per una bambina così tanto attesa. Entrambi i miei genitori furono estasiati da questo nome anche se mia madre, cocciuta come sempre decise di attribuirmi anche il nome della sorella di mio padre “ per rispetto”, in Sicilia è parecchio comune questa pratica . Mio padre però preferì aggiungere la virgola tra i due nomi così da risultare in ogni documento e certificazione esclusivamente Simona (il nome Armida è presente solo all’anagrafe). Ad essere sincera il nome Armida, ventuno anni dopo e soprattutto col senno del poi ,direi che mi si addice di più ,lo sento più mio insomma! Esso è nome di origine germanica, incarna il simbolo di ‘donna combattiva’. Armida, inoltre, nella Gerusalemme Liberata, è la maga che rinuncia ai poteri magici per amore di Rinaldo e visto il mio amore spassionato per la letteratura italiana e per Torquato Tasso, probabilmente mia madre non avrebbe poi così tanto sbagliato.

I miei genitori utilizzavano con me nei primi anni di vita il Baby talk , successivamente mi educarono da perfetta italofona. A casa mia il dialetto era ammonito, severamente vietato! Quando mio zio Aurelio durante le cene familiari pronunciava qualcosa in dialetto, mia madre e mia zia Irene lo ammonivano esclamando: «Parla bene, ci sono le bambine! ». Come se il dialetto fosse un “parlar male”! Mio padre non lo utilizzava mai ,neanche al telefono quando parlava col suo migliore amico, mia madre invece  da diglotta , ogni tanto quando battibeccava con mio padre rispondeva a qualche sua battuta dicendo:[6] « Amunì Lu, a finisci?», l’attimo dopo veniva da me ,quasi mortificata avendo capito avessi sentito e si apprestava a ripetermi che il dialetto non si doveva parlare e che stava solo giocando…

 Ero una bambina che fin da subito ha amato le materie umanistiche e soprattutto i libri . Mia madre mi trovava all’età di 6 anni sul banchetto scuola comprato da mio padre, a ripetere a memoria libri che avevo appena letto. Pensava che imparare il dialetto avesse compromesso la mia preparazione a livello scolastico . Intanto io restavo sempre più affascinata dal dialetto , spesso è stato in grado di regalarmi traduzioni mai attese , come ad esempio un pomeriggio a casa della nonna Maria lei mi disse : «Amore chiudi la bussola». Ricordo che mi guardai intorno cercando una bussola, presentata dalla maestra giorni prima a scuola, intesa come strumento di orientamento indicatore, sulla superficie terrestre! Rimasi attonita non trovandola! Ridendo ,chiesi a mia nonna cosa fosse la bussola e lei mi rispose con enfasi:« La porta è!». Crescendo iniziai a chiedermi del perché l’ammonimento del dialetto! Penso che dovrebbe cambiare il pregiudizio che si ha su di esso! Bisogna amare il dialetto, insegnarlo ai  figli, in questo modo dimostriamo di amare noi stessi. Il dialetto è come se fosse il nostro codice fiscale poiché indica chi siamo, da dove veniamo , insomma le nostre radici !

Così iniziai a crescere, immagazzinando molte parole dialettali che udivo pur non pronunciandole pubblicamente. Con l’andar del tempo mia madre iniziò ,vedendomi più grande, a utilizzarlo con più frequenza, creando un vero e proprio [7] code switching. Completai il mio percorso scolastico alla scuola secondaria di primo grado al migliore dei modi  e nonostante aver ‘toppato’ nella scelta, perdonate il termine diafasico giovanile, della scuola secondaria di secondo grado ,ovvero il liceo scientifico, sono fiera di essere oggi quella che sono, una studentessa di lettere moderne che ama tutto ciò che studia ! Sono fiera di aver guardato mio padre e avergli detto : «Papà io mi sono diplomata, ho capito qual è la mia strada, scelgo di seguire la mia passione: Lettere!».  Sono fiera di aver visto il suo sorriso compiaciuto, due anni fa, quando ancora era qui con me , approvare questa mia decisione, esso è sempre stato fiero di questa mia propensione agli studi umanistici. Mia madre ebbe la stessa reazione, d’altronde lei se dovessi utilizzare una metafora adeguata è per me come l’alimentatore elettrico per il computer! Riesce sempre a caricarmi, ma pur avendomi sempre appoggiata, tutt’ora ogni tanto mi guarda dicendomi:« Non potevi scegliere una facoltà come medicina?». Io so che la sua frase non è dispregiativa nei confronti di ciò che amo o studio ,lo dice solo con rammarico  visto il momento storico che stiamo vivendo dove studenti laureati in lettere spesso si trovano a lavorare come cassiere al supermercato . Da madre si preoccupa semplicemente che possa rimanerne delusa viste le mie grandi aspettative. Ma io le rispondo dicendole che: «Se c’è impegno, voglia e passione si arriva a tutto».  Prometto di impegnarmi e con determinazione raggiungere i miei obiettivi, anche perché è una promessa che ho fatto a mio padre e la sto portando avanti! Concluderei il tutto dicendo che a ventun anni mi definisco una ragazza italofona che ben conosce il dialetto palermitano mi definirei una diglotta anche io! Dichiaro ufficialmente e senza nascondermi che tutte le volte che ho un diverbio con qualcuno, spesso, utilizzo il palermitano e lo faccio anche “ per fortificare il concetto” perché non dobbiamo dimenticare che l’italiano è una lingua che ha subito standardizzazione mentre il dialetto è genuino!

Il dialetto fa parte di ciò che siamo e del bagaglio culturale che portiamo con noi nell’esatto momento in cui pronunciamo qualcosa, attraverso quella parola , anche un semplice ciao, mostra la nostra appartenenza a un certo luogo, spazio, tempo e di questo non possiamo che esserne fieri ,poiché fa parte  della nostra storia personale.

NOTE:

[1] Francesco, i figli sono miei e decido io.

[2] Ancora? Il nome ormai è questo, mia sorella si chiama così.

[3] Ci dico.

[4] La figlia del cuore, la preferita

[5] Papà prendi le scarpe.

[6] Insomma Lucio, la smetti?.

[7] Alternanza consapevole di lingua e dialetto.

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-SIMONA.

15 risposte a "Il Dialetto è ricchezza."

      1. Assolutamente !!!! mi è servito per esaminare dal punto di vista etimologico/dialettale una parola , ed ha contribuito il suo dizionario dialettale della Calabria , atomico !

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  1. Il dialetto non va abbandonato! Un altro paio di generazioni e, oltre a un italiano anglofonato (pardon per certi neo-miei-logismi) e storpiato, nessuno conoscerà più che qualche parola di dialetto, prevalentemente male parole.
    Io ho una storia simile alla tua: napoletano, a casa mia nessuno dei miei genitori parlava il dialetto, a casa dei miei nonni, sia paterni sia materni, non si parlava il dialetto. Lo si conosceva certamente, ma non lo si usava. L’unico che ogni tanto amava trasmettermi la lingua partenopea (e la sua immensa ricchezza) era la buonanima del mio papà, vissuto al Rettifilo e mezzo scugnizzo. Ogni volta che avevo un dubbio su una parola del dialetto, mi rivolgevo a lui e ricevevo la risposta. Sono nato a Napoli e ne sono orgoglioso, vi ho vissuto solo un terzo della mia vita, ma amo il dialetto e vi riconosco la sua importanza come l’hai perfettamente descritta tu. Ai miei due nanerottoli di 6 anni, romani di nascita e di parte materna, lancio sempre delle parole in dialetto: uno dei due è convinto di chiamarsi “farfariello” 😉
    Gran bel post: uno spaccato di storia di una famiglia italiana e meridionale. Nuje simm’ d’o’ Sudd.

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